È difficile immaginare quando l’uomo abbia iniziato a incuriosirsi e farsi domande sulla vita prenatale. Forse da sempre. Certamente, a partire dagli anni Settante e Ottanta del secolo scorso, questo interesse ha ricevuto una spinta decisiva, grazie anche alla disponibilità di nuove tecniche di imaging che rendevano possibile osservare il feto durante la gravidanza. Così, Demi Moore sulla copertina di Vanity Fair nel 1991, l’album In utero dei Nirvana nel 1993 o il video di Teardrop dei Massive Attack nel 1998 testimoniavano l’ingresso nella cultura pop della gravidanza e del feto.

Ma cosa sappiamo veramente della vita fetale? E che tipo di comunicazione avviene tra madre e bambino, prima della nascita? Non sono molti gli studi che si sono occupati di rispondere a questa domanda. Tuttavia, negli ultimi vent’anni abbiamo iniziato a compiere qualche “viaggio” alla scoperta della vita nel pancione e le prime scoperte sono decisamente interessanti.

Fin dagli anni Novanta, sappiamo che feti di trentasei settimane possono essere in grado di rispondere in modo differenziato alla voce materna riprodotta dalle casse e quella prodotta live dalle madri, producendo una frequenza di movimenti fetali differente nelle due condizioni. Più recentemente, si è scoperto che i feti muovono più frequentemente gli arti superiori, la testa e la bocca quando la mamma tocca l’addome, mentre gli stessi movimenti diminuiscono quando la mamma parla.

Tuttavia, è probabile che la maggior parte delle comunicazioni tra madre e feto avvengano attraverso vie non comportamentali, ma fisiologiche o biologiche. Con il passaggio dal secondo al terzo trimestre di gravidanza, il feto inizia a sintonizzare – cioè a regolare in modo ritmico – il proprio battito cardiaco con la madre. Questo è stato osservato nei babbuini osservando la regolazione durante cicli giornalieri del ritmo cardiaco del feto e della madre. Più recentemente è stato osservato qualcosa di simile anche nell’uomo: la voce materna sembrerebbe produrre un aumento del ritmo cardiaco del feto, cosa che non si verificherebbe in risposta a voci di estranei.

Il feto potrebbe anche essere sensibile allo stress materno. In particolare, è possibile generare un transitorio e innocuo stato di stress nella donna tramite un paradigma sperimentale denominato stroop: la donna vede sullo schermo nomi di colori che vengono però rappresentati in tonalità differenti. Per esempio, la parola “rosso” scritta in blu, la parola “giallo” scritta in verde, così via. Questo paradigma genera una piccola risposta di stress prestazionale e a trentasei settimane di gestazione il feto sembra mostrare una risposta cardiaca e un’accelerazione dei movimenti fetali in modo coerente con i picchi di stress materno. In sostanza, i primi studi sulla vita fetale ci raccontano di una connessione tra madre e feto che inizia a svilupparsi già prima della nascita e che probabilmente attiva processi fisiologici ancor prima che psicologici.

Per approfondire: Ammaniti e Ferrari, Il corpo non dimentica (2020 Raffaello Cortina Editore)

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